APRILE 1988 - pre partenza
Ho un vago ricordo della sera prima della partenza, ma con certezza so di non aver chiuso occhio.
I pensieri erano rivolti per lo più all’itinerario studiato a tavolino su una carta dell'Africa di Michelin.
Mi rimbalzavano nella testa il calcolo dei chilometri, la programmazione delle soste per la notte, le varie tappe con posti di “ristoro” per me ed i rifornimenti per la moto.
Acqua e benzina erano le cose più importanti, da non dover assolutamente sottovalutare.
E se mi fosse capitato un incidente? Come avrei reagito?
Ciò che mi tormentava maggiormente era forse dato dal fattore orientamento. Sapermela cavare negli spazi aperti senza o con pochissimi riferimenti.
A tal proposito, avevo fatto incetta di libri e manuali che mi potessero dare istruzioni su come utilizzare bussola e carta, come poter definire una direzione seguendo un punto cardinale con l’ausilio delle lancette di un orologio ed il sole e cosi via.
Anche se qualche esperimento rudimentale al parco del Ticino sulla tenuta del mezzo carico di bagagli in fuoristrada abbinato a qualche esercizio di orientamento mi avevano dato risultati mediocremente soddisfacenti, orientarsi e cavarsela su un territorio pieno di punti di riferimento è una cosa, mentre sarebbe stato differente riorganizzarsi nel nulla.
Meglio non pensarci, al momento si vedrà.
La meccanica della moto e la sua conformazione doveva essere il più affidabile possibile. Nuova era nuova, ma occorreva adattarla all’uso.
La preparazione della mia Yamaha XT 600 modello 87, con l'aiuto di mio padre, mi aveva impegnato diversi fine settimana per la ricerca ed al montaggio dei differenti pezzi. Occorreva trasformare il mezzo, da veloce e snello enduro europeo a robusto ed affidabile “dromedario” da deserto.
Eseguii quindi i lavori di trasformazione nel garage di mio padre.
Iniziai con l’adattare un serbatoio maggiorato, recuperato da una vecchia Yamaha modello Tenereé, ed una sella più corta, al telaio del mezzo.
Seguirono due taniche di plastica morbida, da Lt. 15 cadauna, fissate al codino posteriore con un’intelaiatura artigianale in alluminio rivettato e cinghie in cuoio.
Il calco delle fiancatine originali, fu invece utile alla costruzione di due nuove fiancate in vetroresina, allungate sullo scarico posteriore, per proteggere dal calore le borse morbide in cordura fissate a cavallo del mezzo e ad impedire che le stesse, su terreno accidentato, potessero finire nei raggi della ruota posteriore.
Riempii per più della metà le due borse da viaggio con leve, fili, catena, corona e pignone, bombolette di “Fast”, camere d’aria di scorta, fusibili, lampadine e quant’altro di usurabile o di fragile in caso di caduta.
Il materiale mi fu dato in “comodato” da un amico, che a tempo perso (o meglio come secondo lavoro) riparava moto, consentendomi un notevole risparmio sull’acquisto.
“se li usi me li paghi, altrimenti li riprenderò, non ti preoccupare”
Sulla griglia anteriore, che proteggeva il fanale dalle pietre, avevo fissato delle giberne militari con la rimanenza degli accessori da utilizzare in caso d’emergenza. La piccola tenda a due posti legata assieme al sacco a pelo, venne bloccata posteriormente, su quello che rimaneva del pianale del portapacchi posteriore.
Completavano la dotazione da viaggio, i medicinali ed il materiale di pronto soccorso, una sorta di infermeria da viaggio, che speravo di non dover mai utilizzare, fissata sopra il fanale anteriore.
Quel poco che rimaneva dello spazio utile nelle sacche laterali, era stato riempito con qualche tuta ginnica e del vestiario di ricambio, Il minimo indispensabile.
Le “mille” tasche della giacca da moto e del marsupio, contenevano documenti, soldi, macchina fotografica, obbiettivi, batterie di scorta, cartine e bussola.
L’allenamento fisico avvenuto nei mesi precedenti mi aveva impegnato in percorsi in fuoristrada con la moto carica, per abituarmi a governarla in situazioni precarie.
L’abitudine di centellinare l’acqua, e comunque di berla calda, di regolare il quantitativo di cibo in funzione al giusto fabbisogno, mi avrebbero permesso di non abusare delle quantità alimentari realmente necessarie, in funzione allo sforzo fisico ed ai sali minerali persi.
Doveva essere tutto pronto, così almeno speravo.
CONTINUA.........................................
I pensieri erano rivolti per lo più all’itinerario studiato a tavolino su una carta dell'Africa di Michelin.
Mi rimbalzavano nella testa il calcolo dei chilometri, la programmazione delle soste per la notte, le varie tappe con posti di “ristoro” per me ed i rifornimenti per la moto.
Acqua e benzina erano le cose più importanti, da non dover assolutamente sottovalutare.
E se mi fosse capitato un incidente? Come avrei reagito?
Ciò che mi tormentava maggiormente era forse dato dal fattore orientamento. Sapermela cavare negli spazi aperti senza o con pochissimi riferimenti.
A tal proposito, avevo fatto incetta di libri e manuali che mi potessero dare istruzioni su come utilizzare bussola e carta, come poter definire una direzione seguendo un punto cardinale con l’ausilio delle lancette di un orologio ed il sole e cosi via.
Anche se qualche esperimento rudimentale al parco del Ticino sulla tenuta del mezzo carico di bagagli in fuoristrada abbinato a qualche esercizio di orientamento mi avevano dato risultati mediocremente soddisfacenti, orientarsi e cavarsela su un territorio pieno di punti di riferimento è una cosa, mentre sarebbe stato differente riorganizzarsi nel nulla.
Meglio non pensarci, al momento si vedrà.
La meccanica della moto e la sua conformazione doveva essere il più affidabile possibile. Nuova era nuova, ma occorreva adattarla all’uso.
La preparazione della mia Yamaha XT 600 modello 87, con l'aiuto di mio padre, mi aveva impegnato diversi fine settimana per la ricerca ed al montaggio dei differenti pezzi. Occorreva trasformare il mezzo, da veloce e snello enduro europeo a robusto ed affidabile “dromedario” da deserto.
Eseguii quindi i lavori di trasformazione nel garage di mio padre.
Iniziai con l’adattare un serbatoio maggiorato, recuperato da una vecchia Yamaha modello Tenereé, ed una sella più corta, al telaio del mezzo.
Seguirono due taniche di plastica morbida, da Lt. 15 cadauna, fissate al codino posteriore con un’intelaiatura artigianale in alluminio rivettato e cinghie in cuoio.
Il calco delle fiancatine originali, fu invece utile alla costruzione di due nuove fiancate in vetroresina, allungate sullo scarico posteriore, per proteggere dal calore le borse morbide in cordura fissate a cavallo del mezzo e ad impedire che le stesse, su terreno accidentato, potessero finire nei raggi della ruota posteriore.
Riempii per più della metà le due borse da viaggio con leve, fili, catena, corona e pignone, bombolette di “Fast”, camere d’aria di scorta, fusibili, lampadine e quant’altro di usurabile o di fragile in caso di caduta.
Il materiale mi fu dato in “comodato” da un amico, che a tempo perso (o meglio come secondo lavoro) riparava moto, consentendomi un notevole risparmio sull’acquisto.
“se li usi me li paghi, altrimenti li riprenderò, non ti preoccupare”
Sulla griglia anteriore, che proteggeva il fanale dalle pietre, avevo fissato delle giberne militari con la rimanenza degli accessori da utilizzare in caso d’emergenza. La piccola tenda a due posti legata assieme al sacco a pelo, venne bloccata posteriormente, su quello che rimaneva del pianale del portapacchi posteriore.
Completavano la dotazione da viaggio, i medicinali ed il materiale di pronto soccorso, una sorta di infermeria da viaggio, che speravo di non dover mai utilizzare, fissata sopra il fanale anteriore.
Quel poco che rimaneva dello spazio utile nelle sacche laterali, era stato riempito con qualche tuta ginnica e del vestiario di ricambio, Il minimo indispensabile.
Le “mille” tasche della giacca da moto e del marsupio, contenevano documenti, soldi, macchina fotografica, obbiettivi, batterie di scorta, cartine e bussola.
L’allenamento fisico avvenuto nei mesi precedenti mi aveva impegnato in percorsi in fuoristrada con la moto carica, per abituarmi a governarla in situazioni precarie.
L’abitudine di centellinare l’acqua, e comunque di berla calda, di regolare il quantitativo di cibo in funzione al giusto fabbisogno, mi avrebbero permesso di non abusare delle quantità alimentari realmente necessarie, in funzione allo sforzo fisico ed ai sali minerali persi.
Doveva essere tutto pronto, così almeno speravo.
CONTINUA.........................................
Milano - Genova - TRAGHETTO - Tunisi
Ecco Marco, il mio compagno di viaggio, che mi raggiunge a casa con un mezzo simile al mio, una Yamaha Tenereé, pseudo modificata.
Si parte verso Genova.
La nave che attende al porto è di una compagnia Italiana, con personale Tunisino . L’imbarcazione è un mix di gente che torna in patria, che trasborda merci con grossi camion o che si accinge ad esplorare il continente Africano, a bordo di moto o fuoristrada 4x4.
Le cuccette di seconda classe, sono situate ai livelli inferiori dell’imbarcazione e si presentano come “loculi” a quattro o sei posti letto.
L’igiene dei bagni di bordo è un optional.
I lavabi vengono usati come bidet, gli orinatoi sono intasati e stracolmi, per non parlare dei cessi alla turca, con porte rotte e quant’altro di inimmaginabile al loro interno.
Comunque sia, visto che il viaggio durerà circa 24 ore, varrebbe la pena farsi l’abitudine e soprassedere a qualche piccolo disagio.
Durante la navigazione, facciamo conoscenza con un gruppo di italiani di Novegro, coi quali decidiamo di percorrere assieme i primi chilometri del territorio Tunisino.
L’ora di cena mostra un gran via vai di gente, sia ai bagni, sia alle cuccette che al self-service.
Dopo cena, ci raduniamo a poppa per raccogliere il più possibile informazioni, da qualcuno più esperto di noi.
Notizie sulla morfologia del territorio e sull’ambiente che ci avrebbe accolto all’arrivo.
Cerchiamo di far gruppo coi motociclisti di Novegro per passare la notte, accomodandoci alla bell’e meglio tutti assieme in una cuccetta.
Visto l’ambientino che ci circonda, penso proprio che sarà il caso di dormire completamente vestito (stivali compresi), non ho nessuna voglia di rischiare di farmi tutto un raid con scarpe da ginnastica.
Durante la notte, il mare si agita leggermente, e questo ondeggiamento mi provoca qualche disturbo. Non riesco a dormire tutta la notte, ma limito le discese dalla mio posto sulla cuccetta superiore per non infastidire gli altri che dormono tranquillamente. Quando finalmente riesco ad addormentarmi beatamente, sento un gran trambusto. È già ora di alzarsi.
CONTINUA..............................
Si parte verso Genova.
La nave che attende al porto è di una compagnia Italiana, con personale Tunisino . L’imbarcazione è un mix di gente che torna in patria, che trasborda merci con grossi camion o che si accinge ad esplorare il continente Africano, a bordo di moto o fuoristrada 4x4.
Le cuccette di seconda classe, sono situate ai livelli inferiori dell’imbarcazione e si presentano come “loculi” a quattro o sei posti letto.
L’igiene dei bagni di bordo è un optional.
I lavabi vengono usati come bidet, gli orinatoi sono intasati e stracolmi, per non parlare dei cessi alla turca, con porte rotte e quant’altro di inimmaginabile al loro interno.
Comunque sia, visto che il viaggio durerà circa 24 ore, varrebbe la pena farsi l’abitudine e soprassedere a qualche piccolo disagio.
Durante la navigazione, facciamo conoscenza con un gruppo di italiani di Novegro, coi quali decidiamo di percorrere assieme i primi chilometri del territorio Tunisino.
L’ora di cena mostra un gran via vai di gente, sia ai bagni, sia alle cuccette che al self-service.
Dopo cena, ci raduniamo a poppa per raccogliere il più possibile informazioni, da qualcuno più esperto di noi.
Notizie sulla morfologia del territorio e sull’ambiente che ci avrebbe accolto all’arrivo.
Cerchiamo di far gruppo coi motociclisti di Novegro per passare la notte, accomodandoci alla bell’e meglio tutti assieme in una cuccetta.
Visto l’ambientino che ci circonda, penso proprio che sarà il caso di dormire completamente vestito (stivali compresi), non ho nessuna voglia di rischiare di farmi tutto un raid con scarpe da ginnastica.
Durante la notte, il mare si agita leggermente, e questo ondeggiamento mi provoca qualche disturbo. Non riesco a dormire tutta la notte, ma limito le discese dalla mio posto sulla cuccetta superiore per non infastidire gli altri che dormono tranquillamente. Quando finalmente riesco ad addormentarmi beatamente, sento un gran trambusto. È già ora di alzarsi.
CONTINUA..............................
Tunisi
C’è un po’ di agitazione per l’arrivo in porto di Tunisi. Salgo in coperta, mi sciacquo faccia e denti con una bottiglia di acqua minerale e scruto con lo sguardo l’orizzonte.
Voglio vedere se dall’alto del ponte riesco a scorgere la riva africana ma Marco e gli altri mi dicono che bisogna scendere sottocoperta perché stanno aprendo le porte che conducono alle stive e sarebbe il caso di stare vicino a moto e bagaglio.
Saggia decisione.
L’arrivo in porto, non ci permette quindi di vedere l’avvicinarsi del suolo Africano, in quanto siamo tutti riuniti nella stiva a fianco del proprio mezzo.
Durante l’attesa, c’è un attimo di agitazione per un autista Algerino che accende il camion circa venti minuti prima dell’attracco, rischiando di trasformare il locale in una camera a gas.
Dopo qualche discussione un po’ animata e qualche velata minaccia, il motore del camion si arresta e lentamente il fumo si dirada.
L’apertura del portellone, fa entrare nella stiva una ventata d’aria, che solleva una nebbia di polvere bianco/giallastra.
Ora si possono accendere i motori e procedere verso la dogana con le luci accese.
Stropiccio un po’ gli occhi arrossati dai gas di scarico e dalla polvere e guido il mezzo percorrendo quasi alla cieca la passerella che poggia sul pontile.
Il posto di dogana che si para davanti a noi, dopo un tortuoso percorso, si presenta con una fila interminabile di uomini e mezzi, tutti qui per sbrigare le pratiche di importazione momentanea del veicolo.
Dico agli altri di aspettare in gruppo e mi incammino verso la testa del “serpentone”.
Pullman ed auto completamente messe a nudo dai frontalieri, con tutto il bagaglio sparso per terra, quasi come se fossimo in un grande mercato.
Gente che gesticola o si dispera con i tutori dell’ordine che hanno ricevuto queste disposizioni.
Noto che alcuni strani personaggi, in borghese, si aggirano tranquillamente accanto alle forze dell’ordine intente ad operare i dovuti controlli e che per qualche dinaro, assicurano di poterti far saltare le pratiche burocratiche o perlomeno di poter farti passare davanti a tutta la coda.
Noto allora un gran via vai, formato da gruppi di persone che spudoratamente saltano la coda, grazie alle mance passate ad alcuni funzionari addetti alla registrazione.
Ingenuamente e senza crederci troppo, proviamo ad inscenare una piccola “protesta” per questa “corruzione”, poiché riteniamo non giusto questo comportamento.
Ci rendiamo poi conto che quello che per noi europei non è gradito o considerato giusto, per la gente del posto, di questi luoghi è una normale condizione di vita.
La situazione economica non molto felice del paese ha creato espedienti ai quale ci si deve subito abituare.
Non possiamo ragionare come fossimo in Europa, qui l’ospite siamo noi, e dobbiamo necessariamente adattarci. “C’est l’Afrique” mi dicono………..
Espletate le formalità burocratiche, dopo due o tre ore, ci avviamo verso l’uscita della zona doganale del porto.
Facciamo subito rifornimento ad un benzinaio di Tunisi, anche se i serbatoi sono pieni oltre la metà.
Questa operazione serve a controllare la resa del carburante. Se ci fossero stati problemi con la benzina, almeno eravamo nella capitale, e potevamo perlomeno avvalerci di un’assistenza meccanica in loco che difficilmente avremmo trovato nell’estremo sud.
Verificata la bontà del carburante, costatando che non ci sarebbero stati problemi di sorta, ci dirigiamo verso la parte nord orientale di Tunisi, a Cartages, dove troviamo sistemazione per la notte in un hotel a quattro stelle.
Dopo una traversata in condizioni abbastanza precarie e in prospettiva di chissà quali sistemazioni future, decidiamo che vale la pena dormire bene almeno la prima notte.
Il primo problema è dove lasciare le moto, e ritrovarle la mattina seguente, tutte ed integre.
Chiedo informazioni alla Hall dell’albergo. Il responsabile ci mostra uno spiazzo recintato e custodito, di fronte alla struttura. Vado allora a parlare col guardiano, che in francese stentato, mi fa capire due cose. Una che sarebbe stato accanto ai mezzi tutta la notte, fino alla mattina seguente, e per rafforzare la sua tesi mi mostra un grosso bastone ed una catena, che sarebbero serviti da deterrente per chiunque si fosse avvicinato con cattive intenzioni.
L’altra è la conseguenza della prima, ovvero, una mancia per il servizio reso, metà subito e l’altra metà l’indomani mattina.
Lego la moto con la mia catena, mi avvicino all’uomo ed estraggo una banconota da cinque dinari. La divido letteralmente in due, e consegno una delle metà al custode. “Domani, l’altra metà”
Acconsente facendo un cenno con la testa accompagnato da un sorriso.
Rientro in camera, mi butto sotto la doccia almeno per una buona mezz’ora e scendo per la cena.
Ci ritroviamo tutti e sei attorno ad un grosso tavolo, e degustiamo alcuni piatti della cucina Tunisina, che personalmente trovo gradevole.
Dopo cena, rivisto l’itinerario da percorrere, raccolgo alcune informazioni utili dai locali e mi congedo dal gruppo.
Salgo in camera, al primo piano.
Marco e gli altri fanno la stessa cosa. L’appuntamento è per il giorno seguente verso le sei.
Non riesco a prendere sonno immediatamente, rimango un po’ nel dormiveglia ed alle tre di notte, scosto le tende della finestra per guardare le nostre moto sistemate nel parcheggio recintato.
Incrocio lo sguardo del custode, seduto ed avvolto in una coperta. L’uomo alza la testa, mi vede e fa un cenno di saluto mostrandomi il suo bastone, come se volesse tranquillizzarmi in merito al compito lui affidato.
Riesco allora a dormire tranquillo.
CONTINUA........................................
Voglio vedere se dall’alto del ponte riesco a scorgere la riva africana ma Marco e gli altri mi dicono che bisogna scendere sottocoperta perché stanno aprendo le porte che conducono alle stive e sarebbe il caso di stare vicino a moto e bagaglio.
Saggia decisione.
L’arrivo in porto, non ci permette quindi di vedere l’avvicinarsi del suolo Africano, in quanto siamo tutti riuniti nella stiva a fianco del proprio mezzo.
Durante l’attesa, c’è un attimo di agitazione per un autista Algerino che accende il camion circa venti minuti prima dell’attracco, rischiando di trasformare il locale in una camera a gas.
Dopo qualche discussione un po’ animata e qualche velata minaccia, il motore del camion si arresta e lentamente il fumo si dirada.
L’apertura del portellone, fa entrare nella stiva una ventata d’aria, che solleva una nebbia di polvere bianco/giallastra.
Ora si possono accendere i motori e procedere verso la dogana con le luci accese.
Stropiccio un po’ gli occhi arrossati dai gas di scarico e dalla polvere e guido il mezzo percorrendo quasi alla cieca la passerella che poggia sul pontile.
Il posto di dogana che si para davanti a noi, dopo un tortuoso percorso, si presenta con una fila interminabile di uomini e mezzi, tutti qui per sbrigare le pratiche di importazione momentanea del veicolo.
Dico agli altri di aspettare in gruppo e mi incammino verso la testa del “serpentone”.
Pullman ed auto completamente messe a nudo dai frontalieri, con tutto il bagaglio sparso per terra, quasi come se fossimo in un grande mercato.
Gente che gesticola o si dispera con i tutori dell’ordine che hanno ricevuto queste disposizioni.
Noto che alcuni strani personaggi, in borghese, si aggirano tranquillamente accanto alle forze dell’ordine intente ad operare i dovuti controlli e che per qualche dinaro, assicurano di poterti far saltare le pratiche burocratiche o perlomeno di poter farti passare davanti a tutta la coda.
Noto allora un gran via vai, formato da gruppi di persone che spudoratamente saltano la coda, grazie alle mance passate ad alcuni funzionari addetti alla registrazione.
Ingenuamente e senza crederci troppo, proviamo ad inscenare una piccola “protesta” per questa “corruzione”, poiché riteniamo non giusto questo comportamento.
Ci rendiamo poi conto che quello che per noi europei non è gradito o considerato giusto, per la gente del posto, di questi luoghi è una normale condizione di vita.
La situazione economica non molto felice del paese ha creato espedienti ai quale ci si deve subito abituare.
Non possiamo ragionare come fossimo in Europa, qui l’ospite siamo noi, e dobbiamo necessariamente adattarci. “C’est l’Afrique” mi dicono………..
Espletate le formalità burocratiche, dopo due o tre ore, ci avviamo verso l’uscita della zona doganale del porto.
Facciamo subito rifornimento ad un benzinaio di Tunisi, anche se i serbatoi sono pieni oltre la metà.
Questa operazione serve a controllare la resa del carburante. Se ci fossero stati problemi con la benzina, almeno eravamo nella capitale, e potevamo perlomeno avvalerci di un’assistenza meccanica in loco che difficilmente avremmo trovato nell’estremo sud.
Verificata la bontà del carburante, costatando che non ci sarebbero stati problemi di sorta, ci dirigiamo verso la parte nord orientale di Tunisi, a Cartages, dove troviamo sistemazione per la notte in un hotel a quattro stelle.
Dopo una traversata in condizioni abbastanza precarie e in prospettiva di chissà quali sistemazioni future, decidiamo che vale la pena dormire bene almeno la prima notte.
Il primo problema è dove lasciare le moto, e ritrovarle la mattina seguente, tutte ed integre.
Chiedo informazioni alla Hall dell’albergo. Il responsabile ci mostra uno spiazzo recintato e custodito, di fronte alla struttura. Vado allora a parlare col guardiano, che in francese stentato, mi fa capire due cose. Una che sarebbe stato accanto ai mezzi tutta la notte, fino alla mattina seguente, e per rafforzare la sua tesi mi mostra un grosso bastone ed una catena, che sarebbero serviti da deterrente per chiunque si fosse avvicinato con cattive intenzioni.
L’altra è la conseguenza della prima, ovvero, una mancia per il servizio reso, metà subito e l’altra metà l’indomani mattina.
Lego la moto con la mia catena, mi avvicino all’uomo ed estraggo una banconota da cinque dinari. La divido letteralmente in due, e consegno una delle metà al custode. “Domani, l’altra metà”
Acconsente facendo un cenno con la testa accompagnato da un sorriso.
Rientro in camera, mi butto sotto la doccia almeno per una buona mezz’ora e scendo per la cena.
Ci ritroviamo tutti e sei attorno ad un grosso tavolo, e degustiamo alcuni piatti della cucina Tunisina, che personalmente trovo gradevole.
Dopo cena, rivisto l’itinerario da percorrere, raccolgo alcune informazioni utili dai locali e mi congedo dal gruppo.
Salgo in camera, al primo piano.
Marco e gli altri fanno la stessa cosa. L’appuntamento è per il giorno seguente verso le sei.
Non riesco a prendere sonno immediatamente, rimango un po’ nel dormiveglia ed alle tre di notte, scosto le tende della finestra per guardare le nostre moto sistemate nel parcheggio recintato.
Incrocio lo sguardo del custode, seduto ed avvolto in una coperta. L’uomo alza la testa, mi vede e fa un cenno di saluto mostrandomi il suo bastone, come se volesse tranquillizzarmi in merito al compito lui affidato.
Riesco allora a dormire tranquillo.
CONTINUA........................................
Tunisi - El Fahs - Kairouan - Sbeitla - Feriana - Gafsa
La sveglia, anche se di buon ora, mi trova sufficientemente acclimatato e rilassato.
Inizio ad assaporare i profumi che permeano l’aria. Il tutto è intriso da un vago sentore dolciastro di spezie.
La colazione a base di frutta, mi fa gustare appieno i sapori mediorientali.
Dopo aver saldato la camera ed il debito con il guardiano, con l’altra metà della banconota, carico la moto e lascio la zona di Cartages, in compagnia del gruppo.
Percorso qualche chilometro, abbandoniamo la strada principale per imboccare una laterale che conduce nella parte sud occidentale.
Lasciamo definitivamente il gruppo di amici, che avrebbero percorso la direttrice costiera verso sud-est, e svolto a destra prendendo la direzione sud-ovest, dirigendomi, col mio compagno di viaggio, verso la zona delle oasi di montagna.
Faccio da apripista, con le fotocopie delle cartine agganciate al manubrio, alle mie spalle, a circa due-trecento metri di distanza controllo dallo specchietto retrovisore Marco che mi segue.
Mano a mano che ci allontaniamo da Tunisi, vengono sempre meno i cartelli segnaletici e le indicazioni varie relative il percorso.
La densità abitativa diminuisce col macinare dei chilometri. Attraversiamo sempre più di rado piccoli paesi. Spazi ed orizzonti infiniti si aprono davanti ai nostri occhi.
Durante il percorso, veniamo preceduti dalle ultime piogge monsoniche che si dirigono sempre più a sud.
L’infinito che si dilata di fronte, assume connotazioni sempre più nette sul profilo desertico, presentando un netto contrasto del cielo plumbeo che si arresta sulla la linea dell’orizzonte.
Non è vero che nel deserto non piove mai.
L’aridità dello stesso, è data dal fatto che le precipitazioni meteoriche, anche se imponenti, lasciano solamente un segno momentaneo. Il terreno sottostante, fortemente permeabile, riesce a trattenere l’acqua di eccezionali acquazzoni solamente per diverse ore nell’arco della giornata.
Durante il viaggio, in varie occasioni, capita di dover guadare alcuni “uadi”, torrenti desertici trovati sul percorso, che si riempiono improvvisamente in caso di pioggia.
Ad un certo punto, a sud di El Fahs, tra Sbikha e Kairouan, l’unico percorso, costituito da una strada sterrata sparisce lasciando spazio ad una distesa infinita d’acqua.
Ci guardiamo e facciamo il punto con le carte. Controlliamo la direzione che indica la bussola e per qualche decina di chilometri, puntiamo verso a sud, navigando letteralmente in circa trenta centimetri d’acqua e fango.
Proseguiamo in queste condizioni quasi fino alle porte della città di Kairouan, tappa importante per allevatori nomadi, nel gigantesco mercato di Dromedari, con la sua bellissima moschea, che dovrebbe essere in ordine di dimensioni o importanza la quarta dell’islam, che lasciamo alle spalle.
Il clima torna ad essere secco. Le strade nel frattempo si sono prosciugate, per cui cogliamo l’occasione di fermarci poco dopo la città per mangiare all’ombra di un’acacia un paio di focacce cotte in rudimentali forni, acquistate nei sobborghi della cittadina di Sbikha.
Ci scambiamo alcune impressioni sulla prima tratta, controlliamo i mezzi cercando di liberare la presa d’aria in prossima del filtro dal fango ormai secco, che ha colorato la zona motore di tonalità rossastre.
La strada prosegue in direzione sud-ovest.
La cittadina di Sbeitla ci indica che, in linea d’aria, siamo prossimi al confine Algerino.
Giungendo al crocevia ignoriamo la strada che si para sulla nostra sinistra, che taglia ad est verso Sfax, per imboccare alla nostra destra una strada che, proseguendo verso sud, segue parallelamente il confine Algerino. La direzione è corretta.
Prima di proseguire, visitiamo alcuni ruderi, o meglio quel che rimane di un’antico tempio e di un’arco, segno dell’enorme estensione coloniale dell’impero romano. Dopo aver scattato un paio di foto, riaccendiamo i motori lasciando quanto rimane dell’antica civiltà.
Durante il tragitto, ogni tanto, sul bordo strada, incrociamo dei nomadi con le greggi.
Dobbiamo rimanere all’erta per evitare gli ovini che, in più di un’occasione, ci tagliano la strada improvvisamente.
Scopriremo in seguito che alcuni pastori, hanno l’abitudine di “lanciare” qualche capo sotto le ruote dei mezzi, soprattutto se di turisti. È un espediente per farsi pagare l’animale investito.
Se poi il turista è munito di moto, nell’impossibilità di portar via l’animale ucciso, lascia al pastore sia soldi che il capo abbattuto.
Il percorso continua sbucando in prossimità di una strada ferrata, che ci torna utile per fare il punto della situazione. All’orizzonte spuntano delle alture.
Guido e penso alle antiche vestigia, immaginando un viaggio effettuato coi mezzi dell’epoca, da Roma fino a quaggiù. Doveva essere stato un “massacro”.
Ora però dobbiamo proseguire percorrendo la strada che ci condurrà verso una differente civiltà; La civiltà Berbera.
La direzione è giusta, dovremo raggiungere Temerza, un’oasi di montagna ma l’ora si fa tarda e con molta probabilità faremo tappa a Feriana
Giungiamo al piccolo paesino verso il tramonto.
Cerchiamo un posto per dormire, preoccupandoci maggiormente del ricovero delle moto.
Un paio di ragazzini in bicicletta, a cui abbiamo chiesto informazioni, ci fanno strada e ci accompagnano in un paio di posti.
Non essendo soddisfatti delle sistemazioni proposteci, decidiamo di proseguire e fare una “tirata” fino a Gafsa.
Passiamo il bivio che incrocia la pista per Temerza, verso sud ovest e proseguiamo verso sud est.
La stanchezza inizia a farsi sentire.
Entriamo nella città al tramonto e chiediamo informazioni per il pernottamento. Sembra che la ricettività sia abbastanza buona
La ricerca del posto in cui poter alloggiare per la notte, a seguito delle indicazioni ricevute, non si rivela difficoltosa.
Visitiamo un paio di alloggiamenti ed il secondo ci sembra abbastanza gradevole e vista la stanchezza non ci sembra il caso di fare tanto i preziosi.
Ricoveriamo i mezzi nel cortiletto interno, controlliamo che tutto sia a posto, scarichiamo i bagagli e ci cambiamo per la cena.
Il menù comprende della verdura cotta con pezzi di carne di montone molto speziata. Ci concediamo un paio di birrette fresche. Ci viene offerto anche un ananas.
Chiacchieriamo un po’ con un’archeologa che con suo marito, un paleontologo, erano in zona per cercare, recuperare e studiare alcuni reperti paleolitici.
A tal proposito, ci omaggia di una rara selce preistorica, utilizzata dall’uomo come utensile da taglio, trovata a circa venti chilometri da lì.
Io e Marco ci guardiamo e pensiamo ad una precedente sosta, dove ci eravamo scostati dalla strada principale per espletare i nostri bisogni e tra una chiacchiera e l’altra ci eravamo messi a lanciare svogliatamente nel nulla alcune piccole pietre piatte trovate li accanto.
Erano del tutto identiche a quella omaggiataci dalla donna.
Omettendo ovviamente il motivo della sosta, indichiamo ai due la posizione sulla carta dove avrebbero potuto trovare i diversi cumuli di selci, in un probabile punto di sosta di ominidi preistorici, utilizzato ai tempi, con molta probabilità, come postazione per lavorare e pulire la cacciagione o sgusciare semi e frutta.
Ci accomiatiamo, raggiungiamo la camera e ci buttiamo sul letto. Ci addormentiamo quasi subito.
CONTINUA........................................
Inizio ad assaporare i profumi che permeano l’aria. Il tutto è intriso da un vago sentore dolciastro di spezie.
La colazione a base di frutta, mi fa gustare appieno i sapori mediorientali.
Dopo aver saldato la camera ed il debito con il guardiano, con l’altra metà della banconota, carico la moto e lascio la zona di Cartages, in compagnia del gruppo.
Percorso qualche chilometro, abbandoniamo la strada principale per imboccare una laterale che conduce nella parte sud occidentale.
Lasciamo definitivamente il gruppo di amici, che avrebbero percorso la direttrice costiera verso sud-est, e svolto a destra prendendo la direzione sud-ovest, dirigendomi, col mio compagno di viaggio, verso la zona delle oasi di montagna.
Faccio da apripista, con le fotocopie delle cartine agganciate al manubrio, alle mie spalle, a circa due-trecento metri di distanza controllo dallo specchietto retrovisore Marco che mi segue.
Mano a mano che ci allontaniamo da Tunisi, vengono sempre meno i cartelli segnaletici e le indicazioni varie relative il percorso.
La densità abitativa diminuisce col macinare dei chilometri. Attraversiamo sempre più di rado piccoli paesi. Spazi ed orizzonti infiniti si aprono davanti ai nostri occhi.
Durante il percorso, veniamo preceduti dalle ultime piogge monsoniche che si dirigono sempre più a sud.
L’infinito che si dilata di fronte, assume connotazioni sempre più nette sul profilo desertico, presentando un netto contrasto del cielo plumbeo che si arresta sulla la linea dell’orizzonte.
Non è vero che nel deserto non piove mai.
L’aridità dello stesso, è data dal fatto che le precipitazioni meteoriche, anche se imponenti, lasciano solamente un segno momentaneo. Il terreno sottostante, fortemente permeabile, riesce a trattenere l’acqua di eccezionali acquazzoni solamente per diverse ore nell’arco della giornata.
Durante il viaggio, in varie occasioni, capita di dover guadare alcuni “uadi”, torrenti desertici trovati sul percorso, che si riempiono improvvisamente in caso di pioggia.
Ad un certo punto, a sud di El Fahs, tra Sbikha e Kairouan, l’unico percorso, costituito da una strada sterrata sparisce lasciando spazio ad una distesa infinita d’acqua.
Ci guardiamo e facciamo il punto con le carte. Controlliamo la direzione che indica la bussola e per qualche decina di chilometri, puntiamo verso a sud, navigando letteralmente in circa trenta centimetri d’acqua e fango.
Proseguiamo in queste condizioni quasi fino alle porte della città di Kairouan, tappa importante per allevatori nomadi, nel gigantesco mercato di Dromedari, con la sua bellissima moschea, che dovrebbe essere in ordine di dimensioni o importanza la quarta dell’islam, che lasciamo alle spalle.
Il clima torna ad essere secco. Le strade nel frattempo si sono prosciugate, per cui cogliamo l’occasione di fermarci poco dopo la città per mangiare all’ombra di un’acacia un paio di focacce cotte in rudimentali forni, acquistate nei sobborghi della cittadina di Sbikha.
Ci scambiamo alcune impressioni sulla prima tratta, controlliamo i mezzi cercando di liberare la presa d’aria in prossima del filtro dal fango ormai secco, che ha colorato la zona motore di tonalità rossastre.
La strada prosegue in direzione sud-ovest.
La cittadina di Sbeitla ci indica che, in linea d’aria, siamo prossimi al confine Algerino.
Giungendo al crocevia ignoriamo la strada che si para sulla nostra sinistra, che taglia ad est verso Sfax, per imboccare alla nostra destra una strada che, proseguendo verso sud, segue parallelamente il confine Algerino. La direzione è corretta.
Prima di proseguire, visitiamo alcuni ruderi, o meglio quel che rimane di un’antico tempio e di un’arco, segno dell’enorme estensione coloniale dell’impero romano. Dopo aver scattato un paio di foto, riaccendiamo i motori lasciando quanto rimane dell’antica civiltà.
Durante il tragitto, ogni tanto, sul bordo strada, incrociamo dei nomadi con le greggi.
Dobbiamo rimanere all’erta per evitare gli ovini che, in più di un’occasione, ci tagliano la strada improvvisamente.
Scopriremo in seguito che alcuni pastori, hanno l’abitudine di “lanciare” qualche capo sotto le ruote dei mezzi, soprattutto se di turisti. È un espediente per farsi pagare l’animale investito.
Se poi il turista è munito di moto, nell’impossibilità di portar via l’animale ucciso, lascia al pastore sia soldi che il capo abbattuto.
Il percorso continua sbucando in prossimità di una strada ferrata, che ci torna utile per fare il punto della situazione. All’orizzonte spuntano delle alture.
Guido e penso alle antiche vestigia, immaginando un viaggio effettuato coi mezzi dell’epoca, da Roma fino a quaggiù. Doveva essere stato un “massacro”.
Ora però dobbiamo proseguire percorrendo la strada che ci condurrà verso una differente civiltà; La civiltà Berbera.
La direzione è giusta, dovremo raggiungere Temerza, un’oasi di montagna ma l’ora si fa tarda e con molta probabilità faremo tappa a Feriana
Giungiamo al piccolo paesino verso il tramonto.
Cerchiamo un posto per dormire, preoccupandoci maggiormente del ricovero delle moto.
Un paio di ragazzini in bicicletta, a cui abbiamo chiesto informazioni, ci fanno strada e ci accompagnano in un paio di posti.
Non essendo soddisfatti delle sistemazioni proposteci, decidiamo di proseguire e fare una “tirata” fino a Gafsa.
Passiamo il bivio che incrocia la pista per Temerza, verso sud ovest e proseguiamo verso sud est.
La stanchezza inizia a farsi sentire.
Entriamo nella città al tramonto e chiediamo informazioni per il pernottamento. Sembra che la ricettività sia abbastanza buona
La ricerca del posto in cui poter alloggiare per la notte, a seguito delle indicazioni ricevute, non si rivela difficoltosa.
Visitiamo un paio di alloggiamenti ed il secondo ci sembra abbastanza gradevole e vista la stanchezza non ci sembra il caso di fare tanto i preziosi.
Ricoveriamo i mezzi nel cortiletto interno, controlliamo che tutto sia a posto, scarichiamo i bagagli e ci cambiamo per la cena.
Il menù comprende della verdura cotta con pezzi di carne di montone molto speziata. Ci concediamo un paio di birrette fresche. Ci viene offerto anche un ananas.
Chiacchieriamo un po’ con un’archeologa che con suo marito, un paleontologo, erano in zona per cercare, recuperare e studiare alcuni reperti paleolitici.
A tal proposito, ci omaggia di una rara selce preistorica, utilizzata dall’uomo come utensile da taglio, trovata a circa venti chilometri da lì.
Io e Marco ci guardiamo e pensiamo ad una precedente sosta, dove ci eravamo scostati dalla strada principale per espletare i nostri bisogni e tra una chiacchiera e l’altra ci eravamo messi a lanciare svogliatamente nel nulla alcune piccole pietre piatte trovate li accanto.
Erano del tutto identiche a quella omaggiataci dalla donna.
Omettendo ovviamente il motivo della sosta, indichiamo ai due la posizione sulla carta dove avrebbero potuto trovare i diversi cumuli di selci, in un probabile punto di sosta di ominidi preistorici, utilizzato ai tempi, con molta probabilità, come postazione per lavorare e pulire la cacciagione o sgusciare semi e frutta.
Ci accomiatiamo, raggiungiamo la camera e ci buttiamo sul letto. Ci addormentiamo quasi subito.
CONTINUA........................................